Dettaglio parere dell'Avv. Maurizio Villani in materia fiscale e tributaria
21/02/2005
Avviso di accertamento divisione volontaria
Quesito
Un Ufficio del registro notificò in data 27.10.1994 avviso di accertamento col quale rettificava alcuni valori di una divisione volontaria.
Da parte del contribuente, domiciliato presso uno studio professionale, venne proposto ricorso alla Commissione Tributaria di primo grado (ora, Commissione Provinciale) che, con sentenza del 14.1.1998, depositata l’1.7.1998, l’accoglieva.
L’Ufficio del Registro, con semplice busta raccomandata spedita il 18.9.1999, nella quale si limitava ad indicare solo i nomi dei due soggetti interessati, ha inteso proporre appello alla Commissione Tributaria Regionale.
Il contribuente non si costituiva in giudizio.
L’Agenzia delle Entrate, ha ora notificato a mezzo posta tramite raccomandata con avviso di ricevimento in data 7.1.2005 (art.14 L. 20.11.1982 n. 890), l’avviso di liquidazione delle imposte dovute a seguito della sentenza della Commissione Tributaria Regionale depositata il 12.12.2000 e resasi definitiva il 27.1.2002 con la quale era stata riconosciuta la legittimità dell’appello senza che, nel frattempo, fosse stata eseguita alcuna comunicazione al contribuente.
A questo punto, si deve rilevare che l’Ufficio, in sede di presentazione dell’appello, non ha eseguito le norme previste per il procedimento di primo grado (proposizione del ricorso a mezzo posta in plico raccomandato senza busta), diversamente dalla regolare notifica eseguita il 7.1.2005 richiamata dalla L. 890.
E la Commissione Regionale non ha controllato tale inadempimento fidandosi del deposito della ricevuta di spedizione senza poter verificare il contenuto della raccomandata.
Se la Commissione avesse invece comunicato al contribuente il giorno della discussione dell’appello, avrebbe potuto almeno dare luogo all’instaurazione del contraddittorio fra le patri che, nel caso, è venuto a mancare.
Desidererei sapere se è possibile sostenere la tesi esposta.
Distinti saluti.
Prov. Siena
Parere
In merito al quesito che mi ha posto, Le preciso quanto segue.
Per quanto riguarda le notificazioni degli atti del processo, l’art. 16 del D. Lgs. n. 546 del 31/12/1992 rubricato 'Comunicazioni e notificazioni' al terzo comma testualmente recita: 'Le notificazioni possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento, ovvero….'.
La notificazione è uno strumento essenziale ed indispensabile al fine di portare a conoscenza dei destinatari determinati atti.
Essa rappresenta, inoltre, il mezzo necessario per l’instaurazione del contraddittorio e per la realizzazione dell’esercizio del diritto di difesa.
Per poter ritenere valida la notificazione è sufficiente che l’atto sia entrato nella disponibilità del destinatario dopo che siano state compiute tutte le formalità previste dalla legge.
Soggetto attivo della notificazione è colui che dà impulso al processo notificatorio, mentre destinatario è colui nei confronti del quale si vuol portare a conoscenza l’atto.
Sul punto, si è espressa anche la Suprema Corte asserendo che 'in tema di contenzioso tributario, la notifica del ricorso in appello può essere effettuata – giusta l’espressa facoltà riconosciuta dall’art. 16, co. 3, D. Lgs. n. 546/92 – direttamente a mezzo del servizio postale, mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento.
In tale eventualità, gli artt. 3 e 4 L. 02.11.1982, n. 890, prescrivono le formalità che l’ufficiale giudiziario deve compiere per la spedizione dell’atto.
Nel caso in cui, a seguito del mancato rispetto di tali formalità, come nel caso de quo, la Corte di Cassazione sia investita – mediante ricorso ad essa presentato – della inesistenza della notifica (tamquam non esset) e delle conseguenti nullità dell’atto introduttivo del giudizio di appello nonché della sentenza emessa all’esito del medesimo, quest’ultima deve essere annullata senza rinvio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 62, co. 2, del D. Lgs. n. 546/92 e 382, co. 3, c.p.c.' (Corte di Cassazione, sez. trib. Civ, n. 7608 del 06.06.2000). Ciò in quanto il processo non avrebbe potuto essere proseguito in grado di appello ed i giudici a quibus avrebbero dovuto dichiarare inammissibile il gravame, ai sensi dell’art. 53, co. 1, D. Lgs. n. 546/92.
Inoltre, ultimamente, la Corte di Cassazione –sez. trib.-, con la sentenza n. 333 dell’11/01/2005, ha stabilito il principio che la notificazione dell’appello a mezzo posta in busta chiusa non comporta inesistenza della notificazione bensì semplice irregolarità, eventualmente sanabile anche con la costituzione in giudizio della controparte.
Infatti, secondo i giudici di legittimità, non può considerarsi inesistente la notifica dell’atto di appello, o la stessa proposizione dell’appello, per il solo fatto che l’atto stesso è stato 'imbustato', allorquando si abbia la prova che tale atto esiste ed ha raggiunto il suo scopo.
In realtà, la verifica della configurabilità della categoria della inesistenza giuridica deve procedere a partire dalla verifica degli eventuali effetti; se un atto produce effetti giuridici, come per esempio la conoscenza dell’atto da parte del suo destinatario o la conseguente costituzione in giudizio, appare difficile sostenere la tesi della sua inesistenza, a causa della sua non perfetta rispondenza al modello legale imposto dal legislatore.
In definitiva, quindi, bisogna distinguere l’ipotesi grave della inesistenza giuridica dell’atto da quella meno grave della semplice irregolarità, come peraltro più volte ha chiarito la Corte di Cassazione con le sentenze n. 10481/2003 e n. 1184/2001, come opportunamente citate nella sentenza n. 333/2005.
Nel caso particolare, si è di fronte ad un giudicato già formato, in quanto la sentenza è divenuta definitiva e, quindi, come tale, in linea generale, non può essere più impugnata.
Il giudicato si forma quando spirano i termini per esercitare il diritto di impugnazione (secondo i mezzi ordinari), che variano per essere stata notificata o meno la sentenza, ai sensi degli artt. 325 e 327 c.p.c. e 51 del D. Lgs. n. 546/92, per cui è da ritenere sia stata prestata acquiescenza alla stessa.
Il giudicato processualmente formatosi su di un provvedimento eminentemente decisorio (sentenza) incide in modo vincolante, quindi, sulla situazione giuridica sì da rendere irrilevanti le precedenti condizioni della stessa, anteriori, cioè, all’origine del processo (c.d. efficacia retroattiva dell’accertamento).
La ragione dell’immediata efficacia esecutiva della sentenza risiede nella considerazione utilitaristica, tenuta presente dal legislatore, che il processo deve assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, onde la sua durata non deve andare a danno della parte che ha ragione.
Inoltre, come estrema ratio, anche se il caso deve essere analizzato in tutti i suoi aspetti documentali e di merito, si può invocare l’applicazione del secondo comma dell’art. 327 c.p.c., secondo il quale il decorso del termine di un anno e 46 giorni di cui al primo comma, 'non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’art. 292'.
A tal proposito, la Suprema Corte ha asserito: 'A norma del 2° comma dell’art. 327 c.p.c., il contumace non decade dall’impugnazione allorché dimostri di non avere avuto conoscenza del processo per nullità della citazione, o della sua notificazione: spetta alla controparte, in tal caso, dimostrare che, nonostante la nullità della notificazione o della citazione, il contumace abbia avuto ugualmente notizia del processo; in tale ipotesi, il decorso del termine di un anno di cui al primo comma dell’art. 327 c.p.c. ha inizio dal momento accertato in cui la parte contumace abbia avuto comunque conoscenza del processo (Cass., 14 giugno 1968, n. 1917; Cass., 17 luglio 1969, n. 2636; Cass. 12 luglio 2000, n. 9255)'.
In ordine agli effetti procedurali della mancata costituzione del contribuente appellato, è principio generale che, fino a quando non si verifica la costituzione, come nel caso de quo, la segreteria della Commissione omette, però, legittimamente di comunicare al soggetto che non è costituito tutte le informazioni sull’andamento del processo, come per es. l’invio dell’avviso di udienza (art. 31) o la comunicazione della sentenza (art. 37), che saranno rivolte solo alle parti costituite.
Ed infine, in riferimento ai termini di decadenza per l’iscrizione a ruolo, si precisa quanto segue.
Il fondamento della decadenza sta nella necessità obiettiva che l’esercizio del diritto – esigibilità del debito tributario – sia compiuto entro un termine decadenziale, senza riguardo alle circostanze che hanno determinato l’inutile decorso del termine.
Pertanto, perché la decadenza si applichi è necessario che sia correlata ad un termine. Per termine dies ad quem s’intende il periodo massimo fino al quale debbono prodursi gli effetti legati ad un negozio giuridico.
L’art. 76 del Dpr n. 131/1986, rubricato 'Decadenza dell’azione della finanza', prevede al 2° comma, lett.b), che l’imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni, decorrenti dalla data in cui la decisione della Commissione Tributaria è divenuta definitiva nel caso in cui sia stato proposto ricorso avverso l’avviso di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta.
Nel caso di specie, il termine triennale scadeva il 27.01.2005, considerando i tre anni dal passaggio in giudicato (definitività) della sentenza – 27.01.2002 -, mentre la notifica dell’avviso di liquidazione è stata effettuata il 07.01.2005.
Da questo breve excursus emerge, in sintesi, che al contribuente non rimane che:
- proporre eventuale ricorso per Cassazione, se ricorrono, però, i presupposti specifici di cui al 2° comma dell’art. 327 c.p.c., che devono essere provati documentalmente; il che non è facile, anche alla luce dell’ultima sentenza della Corte di Cassazione n. 333/2005 cit.;
- oppure, impugnare l’avviso di liquidazione per eventuali vizi propri dell’atto (c.d. vizi formali).